La scuola di Tuol Sleng, il cui nome significa poeticamente collina del mango selvatico, è stata trasformata dai khmer rossi in un centro di detenzione tra i più crudeli mai esistiti: il famigerato S-21.
Solo pronunciare il suo nome fa venire i brividi a qualunque cambogiano, anche al più giovane, che si trova a doversi confrontare con un passato terribile e vergognoso di cui si è sempre saputo troppo poco.
Dal 1974 al 1979 la Cambogia visse sotto un regime di autentico terrore in cui i Khmer Rossi del generale Pol Pot torturano e uccisero un quarto dell’intera popolazione.
Il Museo del Genocidio di Phnom Penh è stato inserito dall’Unesco nella lista delle Memorie del mondo. La visita non è un’esperienza facile da affrontare ma nella sua crudezza ci costringe a fare i conti con la storia.
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Il regime dei Khmer Rossi in Cambogia
I khmer rouge (o khmer rossi) prendono il nome dalla principale etnia cambogiana. Erano un gruppo estremista che, radicalizzando i principi marxisti, voleva creare una società basata sull’agricoltura e completamente autonoma.
I bombardamenti dell’esercito americano volti a colpire i comunisti ovunque si rifugiassero, costrinsero anche i khmer a nascondersi nella giungla. Qui svilupparono un odio violento nei confronti degli invasori occidentali e dei loro principi.
Nel 1975 l’Esercito Rivoluzionario guidato da Pol Pot, conquistò Phnom Penh. Per liberare la città dal capitalismo, decise di evacuarla completamente. Entro le cinque del pomeriggio i due milioni e mezzo di abitanti, compresi gli anziani e gli ammalati, dovettero mettersi in marcia e dirigersi verso le risaie.
Erano senza cibo, bevande, medicinali e non sapevano cosa avrebbero dovuto affrontare. “Il cibo era nei campi, stava al popolo procurarselo con il lavoro”. Gli abitanti della città però non avevano gli strumenti, né la resistenza fisica al lavoro agricolo e le campagne divennero dei campi di sterminio.
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Nonostante alcuni di loro, tra cui lo stesso Pol Pot, avessero studiato in Europa, i khmer rossi erano di origine modesta, rozzi e violenti e misero in atto una delle più sanguinare rivoluzioni che la storia ricordi.
Tutti, indistintamente, erano costretti a lavorare nei campi cibandosi di due ciotole di riso al giorno. Non esistevano famiglie né comunità e tantomeno attività religiose. Anche i monaci si trasformarono in contadini e i templi in porcilaie.
In poco tempo gli stessi khmer iniziarono a diventare paranoici e a sospettare di chiunque. Attuarono quindi una sistematica eliminazione fisica di tutti i potenziali nemici a cominciare dagli intellettuali, i più pericolosi, per arrivare a tutti quelli che non erano contadini.
Bastava un nonnulla per essere arrestati e portati in uno dei Centri di Detenzione del Paese, come l’Ufficio di Sicurezza 21 di Phnom Penh, il peggiore.
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S-21 e le atrocità dei khmer rossi
Nonostante avessi letto molto, non ero assolutamente preparata a quello che avrei trovato al Centro di Detenzione S-21.
E’ mattina presto, ci sono pochi turisti e quando oltrepasso l’entrata del Museo ho davvero l’impressione di trovarmi nel cortile di una scuola. Ci sono panchine all’ombra degli alberi ma su tutto l’ambiente regna un insolito silenzio. Ascoltiamo la guida raccontarci la storia dei khmer rossi e della loro ferocia, descrivendo le torture perpetrate ai prigionieri di un carcere che era l’anticamera della morte.
Questo momento sotto le fronde profumate, è servito a prepararmi a ciò che avrei incontrato, ma l’ho capito solo dopo.
E’ una scuola: ci sono le aule, il giardino, quelli che sembrano attrezzi sportivi. E poi c’è il filo spinato, le imposte chiuse, le sbarre e un’ atmosfera opprimente che con gli studenti non ha nulla a che vedere.
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Il centro di detenzione
Dal corridoio del piano terreno si accede alle aule trasformate in celle per i prigionieri “vip”, che avevano il privilegio di essere torturati sul posto. Nessun pagliericcio, solo la rete arrugginita su cui i soldati vietnamiti, arrivati a liberare Phnom Penh, hanno trovato i corpi incatenati e straziati degli ultimi prigionieri. Il piccolo contenitore in metallo che si vede nella foto serviva per i bisogni corporali.
Salgo le scale buie, ho lo stomaco chiuso e gli occhi velati dalla lacrime.
Al piano superiore, ogni apertura è avvolta dal filo spinato per impedire ai prigionieri di suicidarsi gettandosi di sotto. Tutto è rimasto come era e la crudezza di certi dettagli è sconvolgente.
Qui, all’interno di ogni aula sono ricavate tre celle divise da tramezze di mattoni. La luce violenta dell’esterno filtra a malapena dalle imposte sprangate delle poche finestre, il caldo è soffocante. I prigionieri, incatenati al pavimento, non potevano muoversi né parlare con i vicini di cella. Uomini, donne, bambini. Intere famiglie arrestate senza motivo, picchiate e torturate perché rivelassero segreti che non conoscevano.
Sui muri scrostati sono evidenti le macchie di interrogatori condotti con una crudeltà e una violenza inimmaginabili.
Nella stanza più grande, i carcerati erano sdraiati per terra con una sbarra di ferro dotata di ganci che li bloccava gli uni agli altri.
Uscendo mi accorgo che quelli del cortile non sono attrezzi per la ginnastica ma una pertica a cui si appendevano i prigionieri con la testa immersa in un recipiente pieno d’acqua perché si dichiarassero colpevoli di tradimento.
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La follia del sistema
Se siamo a conoscenza di tutti gli orrori della scuola di Tuol Sleng è perché i funzionari, con folle meticolosità, scrivevano tutto dettagliatamente. Fotografavano i prigionieri al loro arrivo e poi dopo le torture. Le immagini ritrovate ritraggono giovani mamme, anziani contadini, insegnanti occhialuti, ragazzi dallo sguardo fiero, occidentali spauriti. Li osservo come se volessi immaginare le loro vite spezzate e non posso credere che gli occhi che incrocio hanno visto l’inferno.
Il decalogo delle regole la dice lunga sui metodi dei khmer rossi per privare le persone anche della propria dignità.
- Devi rispondere immediatamente alle mie domande senza sprecare tempo a riflettere.
- Non devi assolutamente piangere mentre ricevi l’elettroshock o le frustate
- Se non esegui tutte le regole succitate riceverai moltissime frustate con il cavo elettrico
- …….
I khmer rossi trasferivano poi i prigionieri in uno dei tanti “killing fields” per giustiziarli a colpi di vanga, dato che non valevano il costo delle pallottole, e gettarli in fosse comuni. Dopo il 1979 sono stati riesumati più di novemila corpi, poi si è smesso di scavare per pietà di chi era ancora là sotto.
Fratello Duch – tra di loro i khmer rossi si chiamavano fratelli – responsabile del Centro S-21, fu condannato solo nel 2010 a 35 anni di reclusione. Morì nel 2020 dopo dieci anni di carcere.
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La condanna dei sopravvissuti
Degli oltre ventimila prigionieri transitati dal S-21, ne sono sopravvissuti sette e per la sola ragione che avevano una certa utilità per i khmer rossi.
Chum Mey nella vita faceva il meccanico. Dopo dodici giorni di botte ed elettroshock confessò di essere al soldo della Cia e di essere stato incaricato di mettere un veleno negli abiti che confezionava nella fabbrica dove lo avevano mandato a lavorare. Gli fu risparmiata la vita perché era in grado di riparare le macchine da scrivere con cui i khmer rossi trascrivevano gli interrogatori.
Lo incontro nel cortile del Museo, dove ogni giorno viene a testimoniare la sua storia. Intercetto uno sguardo mite mentre acquisto il suo libro dal titolo “Sopravvissuto” e capisco il suo tormento. E’ lo stesso di Primo Levi ( e sono molti i paralleli con i campi di concentramento nazisti) quando non si capacitava di essere un salvato mentre tutti gli altri erano sommersi.
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Anche Bou Meng è un sopravvissuto. E’ stato arrestato con la moglie nell’agosto del 1977 e da quel giorno non riesce a dimenticare l’ultimo sguardo di lei attraverso le sbarre della prigione. Era un artista e si è salvato, facendo ritratti di Pol Pot.
Quella di Norng Chan Phal è una storia terribile. Lui era uno dei quattro bambini prigionieri al S-21 sfuggiti alla furia dei khmer rossi nascondendosi sotto un mucchio di vestiti. Ci sono rimasti cinque giorni fino a che i soldati dell’esercito vietnamita li hanno trovati, quasi morti di fame. Anche lui viene ogni giorno nel cortile della scuola di Tuol Sleng a presentare il suo libro. Sorride mentre firma la mia copia e racconta di come sia riuscito a continuare la vita nonostante tutto. Testimonia la resilienza dei Cambogiani e la loro capacità di sollevarsi dopo un’esperienza devastante.
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Esco decisamente provata dalla visita al Museo del Genocidio e mentre aspettiamo il battello che ci porterà in Vietnam inizio a leggere i libri dei sopravvissuti.
Vorrei capirne di più sulla storia dei khmer rossi, sulla “guerra segreta” degli americani che gettavano bombe senza sosta sul Laos e sulla Cambogia esacerbando gli animi.
Mentre il Mekong con le sue acque limacciose e le sue rive brulicanti di vita mi sfila accanto, mi chiedo cosa ha spinto Pol Pot ad una crudeltà senza limite verso la sua stessa gente: cambogiani contro cambogiani.
Non riesco a darmi una risposta, che probabilmente non esiste. Però gli orrori del S21, così come quelli di Dachau, ogni tanto di notte mi vengono a trovare.
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Il Museo del Genocidio è aperto tutti i giorni dalle 8,00 alle 17,00. per info: tuolsleng.gov.kh
Non penso ci siano parole per commentare un tale orrore, che ha paragone davvero soltanto con i campi di sterminio nazisti. Incredibile che qualcuno sia riuscito a sopravvivere a tale orrore
Pensa che solo sette persone sono uscite vive da quell’inferno e con chissà quali traumi fisici e psicologici. Eppure ogni giorno trovano il coraggio di tornare nel luogo dove hanno subito le più atroci torture e testimoniare la loro dignità
Un racconto davvero agghiacciante. Ho letto ogni riga trattenendo a stenti lacrime e nausea. Questo perchè nel mondo sono ancora tanti, troppi, centri come questi che nel silenzio ancora infliggono atroci torture a dissidenti o poveri sfortunati, E la cosa che più fa rabbia è che il mondo intero chiude gli occhi.
Non bisognerebbe mai chiudere gli occhi davanti alle atrocità, non ci sono mai validi motivi per la cattiveria. Purtroppo la storia spesso non riesce a insegnare ma io mi sento di continuare a testimoniare
Ho letto con tantissimo interesse questo articolo su un argomento di cui avevo solamente qualche vaga nozione. Mi hai fatto scoprire un capitolo agghiacciante di una storia recente: pensare che risalga agli anni Settanta è un pensiero inconcepibile, come è inconcepibile pensare a fino dove si possano spingere gli esseri umani.
Io mi ricordo vagamente che in casa di nominava questo Pol Pot ma io da bambina non immaginavo che questo significasse che in Cambogia si stavano vivendo anni di terrore. Una storia che mi ha addolorato, scandalizzato e che ho voluto approfondire per rendere giustizia alla memoria di tutti quegli innocenti nei quali mi provo a immedesimare
Ho i brividi e le lacrime agli occhi.Grazie per aver raccontato un pezzo di storia cambogiana di cui non ero ancora a conoscenza, ma soprattutto grazie per le storie dei sopravvissuti. Quanto coraggio a tornare giorno dopo giorno in quel luogo di tortura e ricordare la loro storia.
Mi hanno fatto una tenerezza infinita quegli uomini dallo sguardo gentile che ogni giorno tornano in quel luogo terribile, per testimoniare le loro storie. Dimostrano una grandissima dignità
Un’esperienza davvero toccante, rileggendo l’articolo mi hai fatto rivivere le sensazioni provate, è pazzesco perché pochi sanno la storia di questo popolo e non conoscono le atrocità anche qui subite. Ero poi rimasta molto colpita dall’epoca in cui è accaduto tutto ciò non troppo distante da noi. Luogo davvero da vedere per comprendere l’dentità del popolo cambogiano.
E’ pazzesco quanto questi avvenimenti siano vicini a noi, negli anni ’70 io ero una bambina…
È una storia terribile ma che non si deve assolutamente perdere. Hai fatto benissimo a raccontarcela, trasferendoci anche le emozioni che ti ha trasmesso, così che non si perda davvero la memoria.
E’ stata veramente una visita durissima ma è necessario parlarne perché tanta crudeltà non sia dimenticata
Da quando viaggio con il marito, appassionato di storia moderna e contemporanea, ho avuto l’occasione di visitare diversi luoghi che credevo non avrei mai visto in vita mia. Ma se all’inizio ero sono un’accompagnatrice adesso vado con piacere. Abbiamo letto questo articolo insieme e l’abbiamo trovato molto interessante, soprattutto per come hai raccontato le emozioni che ti ha trasmesso. Grazie di avercene parlato.
E’ una pagina di storia vergognosa della quale sapevo poco o nulla. Non ero preparata a quello che avrei visto e soprattutto a quello che avrei saputo su quel periodo atroce per la popolazione cambogiana
Dire che è stato un genocidio è riduttivo: una tragedia di proporzioni immani purtroppo spesso dimenticata e su cui non si riflette abbastanza. Hai fatto bene a scrivere questo articolo perché la memoria è ciò che ci permette di non commettere gli stessi errori del passato (anche se, a giudicare da ciò che sta succedendo oggi nel Mondo, mi sa che ci siamo ricascati).
Purtroppo sappiamo bene che la storia non ci insegna abbastanza. Questa storia terribile è anche recente ed è una cosa che mi ha colpito tantissimo durante la visita
Sarò in Cambogia tra pochi mesi e non mancherà la visita al museo anche se non sarà un’esperienza semplice; sono convita che far conoscere la storia sia utile per evitare di commettere gli stessi errori del passato.
Non sarà sicuramente un’esperienza semplice ma la visita al Campo S21 è una testimonianza importante